"IL CORPO DELLE DONNE" è il titolo del nostro documentario di 25′ sull’uso del corpo della donna in tv. Siamo partiti da un’urgenza. La constatazione che le donne, le donne vere, stiano scomparendo dalla tv e che siano state sostituite da una rappresentazione grottesca, volgare e umiliante. La perdita ci è parsa enorme: la cancellazione dell’identità delle donne sta avvenendo sotto lo sguardo di tutti ma senza che vi sia un’adeguata reazione, nemmeno da parte delle donne medesime. Da qui si è fatta strada l’idea di selezionare le immagini televisive che avessero in comune l’utilizzo manipolatorio del corpo delle donne per raccontare quanto sta avvenendo non solo a chi non guarda mai la tv ma specialmente a chi la guarda ma “non vede”. L’obbiettivo è interrogarci e interrogare sulle ragioni di questa cancellazione, un vero ” pogrom” di cui siamo tutti spettatori silenziosi. Il lavoro ha poi dato particolare risalto alla cancellazione dei volti adulti in tv, al ricorso alla chirurgia estetica per cancellare qualsiasi segno di passaggio del tempo e alle conseguenze sociali di questa rimozione."
Gli autori: Lorella Zanardo, Marco Malfi Chindemi, Cesare Cantù
. corpo, corpo delle mie brame, chi è la più bella del reame? .
“Vengo da un paese dove non c’è una taglia per gli abiti delle donne. Io compro la mia stoffa e la sarta o il sarto mi fanno la gonna di seta o di pelle che voglio. Non devono fare altro che prendere le mie misure ogni volta che ci vado. Nè la sarta né io sappiamo esattamente la misura della gonna nuova. Lo scopriamo insieme mentre la si fa” (Fatema Mernissi, L’harem e l’Occidente, 2000)
‘Il corpo è mio e lo gestisco io’, questa la frase con cui negli anni ’70 le donne hanno portato avanti una battaglia fondamentale, ponendo quel corpo naturalizzato, normato, controllato, relegato nel privato, dritto al centro dello spazio pubblico-politico, scomodo, rivendicativo. La grande rivoluzione cui il movimento delle donne ha dato vita in quel periodo si è così tradotta in un importante guadagno, sia in termini di diritti, di libertà ma anche di consapevolezza e padronanza del proprio corpo. Si è progressivamente eroso e spostato il confine tra privato e pubblico, è entrato in crisi l’esclusivo affidamento della sfera pubblica al maschile e di conseguenza il confinamento nella dimensione dell’oikos delle esperienze più fondamentali del vivere, quelle legate alla corporeità quali il nascere, la malattia, l’invecchiamento, la morte. E così le donne hanno iniziato a interrogare il politico proprio a partire da ciò che veniva comunemente considerato ai suoi antipodi: la nascita, la relazione tra i sessi, la maternità, l’amore, che lungi dal costituire vicende naturali, rispecchiano e sono forgiate dalla visione del mondo di chi detiene il potere politico, economico e culturale. Dopo tutto, citando un altro famoso slogan di quei tempi, ‘il personale è politico’. L’azione dunque più dirompente portata avanti dal femminismo è stata quella di tematizzare e analizzare il rapporto di potere tra i sessi individuandone le ragioni nella sfera del corpo, della sessualità e della maternità. E non è un caso che i gruppi di autocoscienza si svolgessero all’interno delle case, perché solo dal privato, dal ‘diametralmente altro’, si sarebbe potuto ripensare il pubblico mettendo a nudo i profondi nessi che legano i due ambiti. In questa prospettiva, il corpo e la sessualità vengono a giocare un ruolo fondamentale, in quanto sarebbe proprio nella cancellazione della sessualità femminile, ridotta a mera procreazione, che si collocherebbe l’espropriazione più profonda che le donne hanno subito: ridotte a corpo oggettivato, risorsa da sfruttare come potenza generativa o come sessualità di servizio. In questa ottica, la lotta per l’aborto andava proprio nella direzione di rivendicare la legittimità di un piacere proprio, separando la sessualità dalla procreazione. La prima grande conquista, il presupposto per un’effettiva emancipazione, era per le donne la libertà di essere, di vedersi riconosciuta la propria individualità. Ancora una volta la pratica dell’autocoscienza ha offerto una preziosissima occasione, attraverso la narrazione di sè, di vedere riconosciuta la propria unicità. La separazione richiesta da questa pratica, aveva esattamente lo scopo di assumere quella distanza necessaria a comprendere quanto lo sguardo maschile potesse aver colonizzato anche il loro immaginario. Quale, dunque, l’eredità di quella battaglia? Sicuramente la riappropriazione del proprio corpo, la legittimazione di una propria sessualità e la possibilità di scegliere tra varie opzioni di vita. Da questo momento maternità e matrimonio non avrebbero più dovuto essere considerate un destino naturale.
. cosa rimane oggi? .
Potremmo dire che l’obiettivo originario di infrangere il limite tra pubblico e privato e di porre il corpo femminile al centro del ‘politico’ può considerarsi raggiunto. Il punto, però, è che i corpi, la sessualità, la sfera personale, sono diventati il principale nutrimento del consumo e dei media. Lo ‘svuotamento del privato’ ha portato all’opposto ad un ‘intasamento’ del pubblico con il conseguente rischio che il soggetto non riesca più né a raccontare l’esperienza nè, in modo ancora più preoccupante, a farla. Tutto è proiettato all’esterno, mediatizzato, spettacolarizzato. Sebbene assistiamo ad una ‘femminilizzazione dello spazio pubblico’, si tratta in generale di corpi ridotti a mera carne, sottoposti al controllo delle biotecnologie e dei poteri pubblici: di chi nega a chi fugge da guerre, persecuzioni e carestie i diritti fondamentali, svuotando la persona dell’essenza più profonda dell’umano. A questo si aggiunga il protagonismo ambiguo di veline, escort, donne-immagine che ci riprongono un corpo oggetto, mercificato, una sessualità offeta in cambio di potere e denaro. Sebbene ‘vittime’ non sia la chiave interpretativa in grado di comprendere questo fenomeno, poiché quelle stesse donne sono state in grado di impugnare e di utilizzare a proprio vantaggio le ‘potenti attrattive’ offerte loro dagli uomini (maternità e sessualità) come in una sorta di rivalsa, possiamo concordare nell’ammettere che siamo lontane dalla ‘conquista del corpo’ di cui parlavano le femministe negli anni ’70. Significative, in questo senso, le parole di Sibilla Aleramo:
‘Non riesco a trovare la mia intima libertà, l’obbligo di esistere per me. Ho bisogno di essere necessaria a un’altra creatura viva per vivere. Ecco l’amore è questo, l’attaccamento ad una persona alla quale ci si crede necessari, l’amore nella donna, almeno. Per otto anni ho dato tutto di me a Franco, ho compiuto questo atto sacrilego dal punto di vista della mia individualità.’
E continua:
‘Non potevo sorbirmi per intero nella considerazione dei suoi bisogni, prevenirli, soddisfarli. Che miserabile ero io dunque se non riuscivo, una volta accettato il sacrificio della mia individualità, a dimenticare me stessa a riportare integre le mie energie secondo individualità che mi si trovava a lato’.
Queste parole ben esemplificano il tipo di potere di cui le donne hanno cercato di appropriarsi in assenza di ruolo nella sfera pubblica: il potere di rendersi fondamentali e indispensabili all’ altro, nel totale sacrificio di sé. Questa è stata appunto una delle grandi battaglie delle femministe, ovvero far sì che le donne trovassero il piacere di vivere per sé, prendersi cura di se stesse, diventassero cioè persone. Una battaglia non ancora del tutto vinta, però: oggi quantomai essa dovrebbe aiutarci a riconoscere e decostruire gli stereotipi dominanti sulla figura femminile, coagulati attorno alla predisposizione alla maternità e alla prostituzione, e al set di doti presunte naturali ad essi legati. Occorre dunque tornare a interrogarsi, a riprendere un discorso che sembra interrotto. Seguendo l’acuta riflessione di Michel Foucault, il controllo del corpo è l’elemento cardine per l’esercizio del potere e per il mantenimento dello status quo. L’imposizione culturale della triade bellezza-giovinezza-magrezza permette di garantire il dominio maschile attraverso l’introiezione dei suoi valori portanti quali la disciplina, l’efficienza e l’autocontrollo. Se accetterà questi parametri, la donna avrà in cambio una sicura affermazione. Cosa accade però a coloro che non sono in grado di raggiungere l’altissimo ideale maschile? É qui infatti che si annida il rischio di patologie quali l’anoressia e altre, tutte legate alla percezione di sé quale corpo inadatto e dunque inaccettabile.
. una degna conclusione...
che sia un nuovo inizio? .
Come spiega Naomi Wolf:
‘Una fissazione culturale sulla magrezza femminile non è un’ossessione sulla bellezza bensì un’ossessione sull’obbedienza femminile....Le diete sono il sedativo più potente di tutta la storia delle donne: una popolazione fatta di pazzi tranquilli è molto manipolabile’.
Focalizzare l’attenzione sull’aspetto fisico delle donne negli spazi pubblici, costituisce un fattore emotivamente destabilizzante in quanto le riduce ad un oggetto in esposizione, l’oggetto dello sguardo altrui. Penso che la più potente delle conclusioni sia racchiusa nelle parole della sociologa Fatema Mernissi, che raccontando della difficoltà incontrata durante un viaggio in America, a trovare la taglia di una gonna adatta alla sua corporatura, così chiude il suo acutissimo ‘L’harem e l’occidente’:
‘Io ti ringrazio, Allah, per avermi risparmiato dalla tirannia dell’harem della taglia 42’, ripeto a me stessa, mentre me ne sto seduta sul volo Parigi- Casablanca, felice di tornare a casa.[...] Immagina i fondamentalisti, se obbligassero le donne non solo a mettere il velo, ma un velo di misura 42! Come si fa a organizzare una marcia politica credibile, e gridare nelle strade che i tuoi diritti umani sono stati violati perché non riesci a trovare una gonna che ti va bene?’
. una scultura tradizionale .
Eleanor Antin (NYC, 1935), si oppone a un ideale di bellezza femminile confezionato da moda e società, quasi sempre prodotto di un punto di vista esterno e di frequente maschile, che riduce la donna a manichino da guardare e burattino da dirigere. Vuol capire fino a che punto un corpo possa modificarsi in nome di un ideale e decide così di intervenire direttamente sul proprio. Dal 15 luglio fino al 21 agosto 1972, si impone un’alterazione fisica rapida e forzata, un regime di quasi digiuno per 36 giorni consecutivi. Ogni mattina, di fronte alla medesima parete bianca, immortala se stessa nelle stesse quattro posizioni: frontale, profilo destro, profilo sinistro, di spalle. Un totale di circa 144 foto, 17x12 cm, che portano il nome di Carving, a traditional sculpture e testimoniano una nudità scolpita dalla fame. Un corpo-opera, su cui applicare le indicazioni di Michelangelo per cui “la scultura si fa levando”. Come gli uomini, che per secoli avevano modellato il personale ideale di bellezza femminile sul marmo, la Antin si fa artefice, forgia il proprio corpo e lo ripone su di un piedistallo.
. un corpo da scolpire .
Marina Abramovic (Belgrado, 1946).
“Sul tavolo ci sono 72 oggetti che potete usare su di me come meglio credete: io mi assumo la totale responsabilità per sei ore. Alcuni di questi oggetti danno piacere, altri dolore.” Con queste semplici indicazioni l’artista montenegrina dà il via, nel 1974, alla performance Rhytm 0. All’ingresso, un tavolo su cui poggiano 72 oggetti, alcuni di piacere (le scarpe, il boa di piume …), altri di dolore (le catene, i martelli, le fruste…) e altri ancora di morte (le lamette e la pistola). Per sei ore consecutive si mette nelle mani di un pubblico che se dapprima è delicato e esitante, con il passar del tempo si fa intraprendente fino alla ferocia. In un crescendo di violenza, i presenti le tagliano i vestiti e la pelle, le mettono in mano una pistola carica, le poggiano il dito sul grilletto e gliela dirigono contro. La performance viene qui interrotta, la avrebbero uccisa?
. un insieme di modelli .
Orlan (Saint-Étienne, 1947). Anche per lei il “materiale” da sperimentare è il proprio corpo, un corpo contro il quale si ribella perché apparentemente portatore di un’identità definitiva e determinata. E’ la metà degli anni ‘80 quando Orlan dà inizio a un processo di distruzione e ricostruzione della propria individualità. Attraverso centinaia di operazioni chirurgiche dal titolo “Reincarnation of Saint Orlan”, si rimodella con lo scopo di trasformarsi in un nuovo essere che incarni in sé parti diverse di esempi classici quali la Venere, Diana, la Monna Lisa… Una metamorfosi la sua che parte dalla sfida a una concezione di bellezza e anatomia percepite come immutabili per arrivare a un corpo nuovo, inteso come scelta e per questo, sempre modificabile.
“Oggi con la chirurgia e con la tecnologia siamo in grado di inventarci il corpo e il viso, persino di plasmarcelo a piacere. Da quando ho cominciato a sottopormi a interventi per dimostrare questa deriva (dalla metà degli anni ’80) la tendenza estetica è diventata ancora più estrema e quello che io facevo come performance è stato scavalcato dalla realtà. Oggi gli stereotipi sull’aspetto della donna sono ancora più duri da estirpare perché sembra che tutto sia possibile.”
. un corpo in natura .
Ana Mendieta (L’Avana, 1848). E’ con l’inizio della rivoluzione che i genitori decidono di mandarla, insieme alla sorella, negli Stati Uniti, nei quali trascorrerà gran parte della vita. I legami con la cultura di origine non verranno però mai spezzati, anzi, saranno centrali in tutta la sua ricerca. La serie di opere che qui ci interessano porta il nome di Siluetas, che dal 1973 al 1977 la vede impegnata nel tentativo di ritrovare una relazione fisica con la terra. Dotò la terra di forma umana, la sua, una sagoma ricreata con il legno, con l’immondizia, con l’erba, con la neve, con l’acqua, con gli alberi, con i fiori, con le foglie, con le pietre. Il corpo, volontariamente privato di ogni riferimento personale, valorizza con la sua assenza una natura che è viva, riproduttiva e eterna.
. un corpo in tensione .
Jeanne Dunning (Hartford, 1960). Le sue opere, quasi sempre, instillano dubbi. “Come vediamo?” sembra chiedersi e chiederci. Quello che spesso mostra è un corpo le cui funzionalità sono tanto invertite al punto da disorientare la comprensione e lo spettatore che, privato di agganci, si trova in mezzo a una tensione di attrazione e repulsione generata dalla stessa immagine. Tale dinamica è manifesta nel video Get dressed. Del corpo non restano agganci, è carne? E’ apparenza? Di sicuro, il piacere della visione di un bel corpo è negata e lascia spazio a una serie di supposizioni.