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“Imparate, o donne, quali cure abbelliscano il volto, e in quale modo debba essere preservata la vostra bellezza.

La coltivazione ha imposto al suolo sterile di pagare i prodotti di Cerere, e sono scomparsi i rovi spinosi; la coltivazione corregge anche nei frutti il sapore aspro e l’albero inciso per l’innesto riceve vigore dall’altra pianta. Tutto quello che è curato piace: si ricoprono d’oro gli alti palazzi e la terra nera è nascosta sotto un rivestimento di marmo. (…)

Forse le antiche Sabine, ai tempi del regno di Tazio, avranno preferito curare i campi paterni più che se stesse, quando la rubiconda matrona, seduta su un alto sgabello, con mano instancabile filava, ingrata fatica; era lei a rinchiudere nell’ovile gli agnelli, che la figlia aveva condotto al pascolo, lei a gettare sul fuoco ramoscelli e pezzi di legna.

Le vostre madri, al contrario, hanno messo al mondo fanciulle delicate: volete che il corpo sia coperto di vesti dorate, volete acconciature diverse per i capelli profumati, volete mani che si fanno ammirare per le gemme preziose; vi cingete il collo con pietre importate dall’Oriente, e alle orecchie ne avete due tanto grandi che è faticoso reggerle.

E tuttavia non è cosa sconveniente: abbiate cura di piacere, dal momento che la vostra epoca annovera uomini eleganti. I vostri mariti si curano con arte femminea, e la sposa ha ben poco da aggiungere alle loro raffinatezze. (…)

Suvvia, spiega in che modo il viso possa risplendere candido, dopo che il sonno ha abbandonato le tenere membra.

Togli via paglia e pula all’orzo che i coloni africani hanno inviato per mare; sia amalgamata con dieci uova una misura uguale di lenticchie: quando il tutto si sarà asciugato al soffio del vento, fallo macinare con la ruvida mola da un’asina lenta. Trita anche le corna che cadranno per prime ad un cervo longevo, e poi, quando si saranno mescolate a questa polvere farinosa, vaglia subito il tutto attraverso un setaccio molto fitto. Aggiungi dodici bulbi di narciso sbucciati, da pestare con mano instancabile in un mortaio ben pulito; la gomma insieme a sementa d’Etruria pesi due once; a questo si aggiunga nove volte tanto di miele. Ogni donna che tratterà il volto con tale cosmetico risplenderà più liscia del suo specchio. (…)

Ho visto una donna che pestava e applicava sulle sue tenere guance papaveri fatti macerare nell’acqua fredda.”

Ovidio, Medicamina faciei (tra il I sec a.C. e  il I sec. d.C.) 

(…) Infatti peccano contro di Lui quelle donne che si tormentano la pelle con i cosmetici, macchiando le loro gote di rosso e allungando la forma degli occhi con la fuliggine. Di certo a queste donne dispiace ciò che Dio ha modellato e rimproverano e biasimano in se stesse l’artefice di tutte le cose. Lo biasimano quando, tramite il trucco, correggono e fanno aggiunte, prendendo senza dubbio queste aggiunte dall’artefice nemico, ovvero il diavolo. Infatti chi potrebbe insegnare a modificare i corpi, se non colui che trasformò anche lo spirito dell’uomo tramite la malizia? (…)

Vedo poi alcune donne tingersi i capelli di giallo. Esse si vergognano della loro origine: di non essere nate in Germania o in Gallia. Così cambiano la loro patria grazie ai capelli. Fanno a se stesse un terribile servizio con il loro colore biondo, credendo di abbellire ciò che invece imbrattano. La potenza dei coloranti nuoce ai capelli bruciandoli, l’applicazione ripetuta di qualsiasi liquido, anche se puro, è rovinosa per il cervello, allo stesso modo in cui lo è il desiderabile ardore del sole che ravviva e asciuga i capelli. (…)

E queste donne confutano la parola di Dio dicendo: “Ecco che da bianchi li rendiamo biondi, per farli più graziosi”. Sebbene ve ne siano anche di quelle che si sforzano da bianchi di renderli neri: sono quelle a cui rincresce essere vissute sino alla vecchiaia. Che follia! (…)

Dal momento che, a causa di un difetto della natura, vi è la voglia innata di piacere- gli uomini a causa delle donne e le donne a causa degli uomini- , anche il sesso maschile riconosce come propri dei trucchi per abbellirsi: tagliarsi la barba assai finemente, estirparla nel mezzo, raderla intorno, acconciare i capelli e persino tingerli, rimuovere i capelli bianchi prima possibile, depilare tutto il corpo, come le donne, levigare le parti restanti con una polvere ruvida, poi consultare lo specchio in ogni occasione, e guardarsi in esso ansiosamente; (…)” Tertulliano, De cultu feminarum (220)

(…) Si tinge le labbra di un rosso così vivo che sembra che canti: “Giovanni, vieni a baciarmi!”. Non è perché ama- ama solo se stessa- che cerca tanto di piacere, ma per ottenere amore; a spingerla non è onestà, ma la ricerca di onori; non pietà, ma il desiderio di lode. (…)

Il suo dolce viso è il libro che consulta più spesso, lo legge attentamente ogni mattina, in particolare se quel giorno deve uscire, e, a seconda di quello che le dice il suo sguardo o quello della sua cameriera, talora cancella pallido e scrive roseo. Solitamente distrugge di notte la faccia che si costruisce di giorno, per farne un’altra nuova il giorno dopo”

Thomas Tuke, The pictur of a pictur, or, The Character of a painted Woman (1616)

(…) Tutto quanto è bello e nobile è il risultato della ragione e del calcolo. Il delitto, di cui la bestia umana ha appreso il gusto nel ventre della madre, è originariamente naturale. La virtù, al contrario, è artificiale e soprannaturale, giacché sono stati necessari, in tutti i tempi e in tutti i popoli, divinità e profeti per insegnarla all’umanità imbestiata, e l’uomo, da solo, sarebbe stato impotente a scoprirla. Il male si fa senza sforzo, naturalmente, per fatalità; ma il bene è sempre il prodotto di un’arte. (…)

La donna è proprio nel suo diritto e anzi compie una sorta di dovere quando si studia di apparire magica e soprannaturale: è necessario che stupisca e incanti; idolo, deve dorarsi per essere adorata. La donna perciò deve prendere a prestito da tutte le arti i mezzi di elevarsi al di sopra della natura per meglio soggiogare i cuori e colpire gli spiriti. Importa poco che l’astuzia e l’artificio siano noti a tutti, se il loro successo è certo e l’effetto sempre irresistibile. In questo genere di riflessioni l’artista filosofo può trovare facilmente la legittimazione di tutte le pratiche messe in opera in tutti i tempi dalle donne per consolidare e divinizzare, in certo qual modo, la loro fragile bellezza. Enumerarle tutte, sarebbe interminabile, ma per ridurci a ciò che il nostro tempo chiama volgarmente trucco, non vi è chi non veda come l’uso della polvere di riso, così inusualmente messo al bando dai filosofi candidi, abbia come fine e come risultato quello di far scomparire dalla carnagione tutte le macchie che la natura vi ha oltraggiosamente disseminate, e di creare un’unità astratta nella grana e nel colore della pelle, la quale, come quella prodotta dalla maglia, accosta immediatamente l’essere umano alla statua, cioè a un essere divino e superiore. E quanto al nero artificiale che cerchia l’occhio e al rosso che segna la parte superiore della guancia, benché l’uso derivi dallo stesso principio, che è il bisogno di superare la natura, il risultato vale per soddisfare a un bisogno del tutto opposto. IL rosso e il nero rappresentano la vita, vita soprannaturale e smisurata; il bordo nero fa lo sguardo più profondo e singolare, dona all’occhio un’apparenza più risoluta di finestra aperta sull’infinito; il rosso che infiamma i pomelli, accresce vieppiù la luminosità della pupilla e insinua in un bel volto femminile la misteriosa passione della sacerdotessa.”

Charles Baudelaire, Eloge du maquillage (1863)

Corpo culturale

Il corpo, in misura maggiore o minore, è da sempre colmato di significati e condizionato dal contesto socio-culturale in cui vive.  Per questo, la definizione di “corpo naturale” gli è stretta e viene spesso sostituita con quella di “corpo culturale”.

La pelle è la superficie vuota sulla quale inscrivere le pratiche e tracciare i segni che con i loro significati configurano un’identità.

Dal punto di vista fisiologico, la pelle è una struttura elastica e molto resistente composta di due strati, l’epidermide e il derma, che costituisce il 18% circa del peso corporeo di un adulto. Ha una duplice caratteristica: come gli altri organi di senso è ricettiva e, diversamente da loro, è al contempo attiva. Essa infatti, registra le impressioni così come comunica gli stati d’animo quali il pudore, la rabbia, l’angoscia, attraverso il rossore, l’impallidimento, la sudorazione e la “pelle d’oca”. 

A differenza degli animali, l’uomo è destinato a non cambiar mai pelle e la sua muta allora può aver luogo solo simbolicamente, attraverso pratiche che ne incarnino una trasformazione e a volte un desiderio.

Fin dall’antichità abbigliamento, trucco, body painting, tatuaggio e ornamenti furono impiegati per attirare l’attenzione, ma anche per definire un rango sociale, l’appartenenza a un gruppo o le intenzioni e i particolari stati d’animo degli individui.

Maquillage

Il viso, grazie alla sua posizione sovrastante il collo, è un luogo di spicco, una sorta di crocevia dove pubblico e privato si incontrano. Il termine “faccia”, che deriva dal latino facies, rimanda all’altrettanto latino facio, verbo che indica un’azione. La faccia infatti è agita, organizzata, messa in scena: è un’opera frutto di un lavoro.

La storia della cosmesi inizia con la nascita delle civiltà. Sappiamo che i Sumeri, i Babilonesi e gli Assiri erano soliti impiegare profumi e incensi per le pratiche religiose. Anche gli Egizi, nelle procedure di imbalsamazione dei morti, facevano grande uso di aromi e prodotti cosmetici. E’ attestato inoltre che la cosmesi trovava un impiego anche nella vita quotidiana, con il fine di avvicinare il più possibile l’aspetto umano a quello divino.

Con il passare del tempo, il trucco è stato associato alla bellezza femminile e al suo potenziale seduttivo e fascinatorio. Anche se oggi appare come pratica consolidata, per secoli è stato sottoposto a condanne da parte dei molti che vi riconoscevano una consuetudine moralmente riprovevole. Trucco in italiano significa per l’appunto inganno e raggiro. Presso i Greci, benché la cura del corpo e l’igiene venissero considerati indispensabili, il trucco era spesso guardato con diffidenza e ostilità. Persino Socrate sembra avesse “educato” la propria moglie, avviandola ad attività domestiche che, secondo lui, costituivano la destinazione naturale della donna, dissuadendola dall’uso dei cosmetici che, sempre secondo lui, offrivano solo ingannevoli parvenze e artificiosità. Sappiamo che anche i Romani avevano un’opinione simile a riguardo, relegando il trucco a “cosa futile”.

Dalle fonti pervenuteci sappiamo però gli interventi di cosmesi erano comunque molto in uso, volti principalmente alla cura della pelle, alla quale venivano applicati il grasso di cigno, il latte d’asina, e persino gli escrementi di coccodrillo, costoso e pertanto accessibile solamente alle donne più ricche.

Giunta sino a noi, la depilazione tanto del viso quanto del corpo sia femminile che maschile, era molto diffusa. Il rasoio ma anche il dropax, un unguento a base di argille e pece, erano gli strumenti impiegati per rendere la pelle liscissima.

La base della cosmesi greco-romana era la biacca, carbonato di piombo altamente tossico, con il quale si ricopriva il viso a mo’ di fondotinta. Sopra esso si stendeva il fucus, un colorante rosso estratto da alcuni licheni e, per finire, non potevano mancare i lustrini ottenuti dalla polverizzazione dell’ematite con i quali si conferiva luminosità al volto. Agli occhi era destinata una grande varietà di ombretti gialli, verdi o celesti, ottenuti da diversi minerali, le ciglia invece venivano annerite attraverso il nerofumo, una polvere ottenuta dalla combustione dei noccioli dei datteri; il contorno degli occhi era invece intensificato dal kajal, di provenienza egiziana e ancora oggi in uso. I rossetti erano ottenuti da estratti animali, vegetali o minerali. Il volto era inoltre decorato dagli splenia lunata, piccoli nei in stoffa, in voga fino al Sette-Ottocento, che andavano a coprire le imperfezioni del volto, spesso tracce di malattie, e a renderlo più interessante.

L’arte della preparazione dei trucchi era di solito affidata alle schiave, che li stemperavano con sostanze grasse, olio o a volte saliva, li miscelavano con un pestello in un piccolo mortaio e li applicavano con l’ausilio di cucchiaini e piccole spatole.

I capelli erano anch’essi oggetto di grande cura, erano infatti nutriti con impacchi e maschere e cosparsi con unguenti profumati. Le donne li tingevano, spesso di biondo, colore che conferiva loro un tocco esotico. Anche le acconciature erano all’ordine del giorno, si usava un ferro arroventato per arricciare o uno spillone per dividere e raccogliere. Quando la capigliatura era poco folta, si ricorreva all’uso di parrucche.

Oggi

I cosmetici oggi rappresentano una categoria di merce usata da tutti e quotidianamente. Esiste una vasta gamma di prodotti per l’igiene, per il buon mantenimento dei tessuti e per l’aspetto estetico. Quest’ultima è quella dei cosmetici in senso stretto e somiglia moltissimo ai cosmetici antichi. A cambiare è il giro di affari che gli è cresciuto intorno, così come la loro finalità. La cosmesi infatti, così come la chirurgia estetica, risponde oggi a codici sociali che danno credito e valore specialmente a bellezza e giovinezza. In quest’ottica, nell’uso della cosmesi inteso come cura di sé, può insinuarsi una pericolosa angoscia: il pericolo dell’invecchiamento. Questa pratica di piacere corre quindi il rischio di vedersi ridotta a pratica di difesa dal tempo e dalla fragilità corporea.

(testo di riferimento: Teoria del maquillage, a cura di Federica Fioroni, Archetipo libri, 2010)

Conclusione non è

E siamo dunque alla conclusione di questo avventuroso viaggio, che poi una conclusione non è. Per dirla più correttamente, infatti, ci troviamo ad un nuovo inizio. Perchè la cosmesi, come vedremo a breve, è un biglietto aperto per destinazioni inimmaginabili. E lo si comprende se posiamo il nostro sguardo sulla cornice che informa questa tematica così affascinante. Cercheremo adesso di capirne le ragioni. Il femminismo degli anni ’70 aveva messo definitivamente in crisi l’idea che l’altruismo fosse la virtù femminile per eccellenza. Carol Gilligan, studiosa di fama internazionale e autrice di In a Different Voice,  durante una ricerca sullo sviluppo morale degli individui, afferma: ‘ascoltando le donne fui colpita più e più volte da come l’opposizione tra egoismo e altruismo aveva il potere di informare i loro giudizi morali e guidare le loro scelte’. Alcune, riporta Gilligan, si giustificavano con le parole: ‘cosa c’è di male nel fare qualcosa per qualcuno che ami?’. Tradizionalmente infatti, soprattutto all’interno della nostra società, una donna poteva godere di approvazione nel caso manifestasse empatia verso gli altri soggetti, ma qualora dimostrasse interesse verso i propri specifici bisogni la pubblica condanna cadeva inesorabilmente su di lei. Si comprende quindi come il buono e il cattivo, quando attribuito ad una donna, fosse capillarmente intriso di cultura patriarcale. Una interferenza che mette a tacere le loro voci, e in modo ancora più preoccupante, le loro voci interiori, quelle che esprimono i bisogni, i desideri. Dopotutto, si diceva, prendersi cura è ciò che rende una donna virtuosa; la cura è un lavoro da donne. Ma come hanno ampiamente sostenuto le teoriche femministe dell’etica della cura, in un tessuto democratico ricco la cura è un’etica dell’umano in grado di riconnettere i dualismi su cui poggia l’ordine patriarcale: ragione-emozione, mente-corpo, sé-relazioni, uomo-donna. Grazie alle battaglie non solo teoriche, ma anche sociali e politiche di quegli anni per la prima volta essere uomo non significava automaticamente essere soldato, così come per una donna essere madre. Qualcosa, possiamo dire, è cambiato per sempre. Più specificamente, la cura e il prendersi cura passano da una dimensione prettamente femminile a qualcosa che interessa l’umano in sé. La stessa Gilligan ha dimostrato la necessità di non tenere separata la cura dal dibattito sulla giustizia, mostrando come il tema dell’equità e dei diritti interseca quello della cura e della responsabilità. Detto in altre parole, le ingiunzioni morali a non opprimere e a non usare il potere ingiustamente vanno di pari passo al non abbandonare, al non trattare con noncuranza, a non rimanere indifferenti alle richieste di aiuto. Ma l’elemento ancora più rilevante è che questo slittamento prospettico e sostantivo non riguarda solo il nostro rapporto, come donne, con il mondo esterno ma, elemento affatto scontato, prima di tutto con noi stesse. Se accettiamo la fallacia della contrapposizione tra mente e emozioni, fallacia che ha reso la donna un essere ancillare e subordinato, ci troveremo di fronte un nuovo orizzonte. Svelata la strategia secondo la quale in nome della femminilità viene richiesto alla donna di sacrificare i propri diritti per mantenere relazioni pacifiche e prive di conflitti (per l’uomo), ecco che il campo sembra libero per affermare un modello di relazioni in cui ciascuno/a viene ascoltato/a con rispetto e attenzione, in sé e per sé, indipendentemente dal suo genere. Ma questo traguardo è ancora di là da venire e sulle donne ricadono ancora aspettative e oneri e si consuma una lotta incessante per incarnare quel modello. Per dirla con altre parole, il dimenticarci di noi stesse è frutto di una dissociazione di genere lunga secoli. E così abbiamo perseverato, dicendoci che come noi molte altre prima lo hanno fatto. Anche se nel profondo percepiamo che tutto questo non vada bene, risulta altresì estremamente difficile scardinare usanze tanto radicate. La realtà è che avvertiamo un profondo senso di solitudine. Quale spazio, allora, per la resistenza? Diventa innanzitutto fondamentale affermare e credere che esistano nuove opportunità, modi differenti di concepire le relazioni. Questo è il presupposto affinché possiamo concretamente costruirci delle alternative. Leggere, studiare, dare vita a spazi di discussione e di confronto sono strumenti importanti per realizzare che quello che ci si aspetta da noi può anche non corrispondere ai nostri bisogni e ai nostri diritti, e che il dovere di cura esiste prima di tutto nei nostri confronti. Joan Tronto, altra teorica femminista, definisce la cura come quell’attività che include tutto ciò che facciamo per mantenere e riparare il nostro ‘mondo’ in modo da poterci vivere nel modo migliore possibile, e questo mondo include l’ambiente ma anche e soprattutto i nostri corpi. Ecco, la cosmesi, in questo quadro, diventa un rituale, un gesto di amore e di cura, appunto, verso sé, segno tangibile di un nuovo rapporto con noi stesse e con il contesto circostante. La cosmesi torna a parlare di chi siamo, dei nostri bisogni e delle nostre aspirazioni. Essa non serve a nasconderci o a conformarci a ruoli imposti dall’esterno, ma a disegnare modelli alternativi e concretamente liberatori perché scaturiscono dalla nostra voce interiore e perché mantengono con essa un dialogo costante.

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